mercoledì 27 maggio 2009

LA STRADA


La strada e' sempre la'

Davanti alla mente,

dentro al cuore,

spina amorosa dell'anima,

dolce e selvaggia signora,

fatua e prepotente,

delicata e violenta,

sfumata eppur certa.

Assolata come un pomeriggio d'estate

o persa nel grigiore innevato

di un freddo inverno.

E lei grida e ti afferra,

e poi si stende remissiva,

accogliendo i passi del viandante,

solida e cocciuta come un cespuglio

che si aggrappa alla terra.

E sgorga chissa' da dove

e fluisce in eterno

come la musica di un dio

che dritta procede

fino al limitare della casa del Cielo

per farsi trovare dai sognatori.

E ti chiama senza posa,

e ti blandisce ruffiana

oppure strepita e s'impone,

aspra come una serata di pioggia,

tortuosa e impervia

come le paure di un uomo.

Ma poi sussurra silenziosa

e ti si getta fra le braccia,

e ti svela i suoi segreti

di amante immortale,

quando uno squarcio sul cammino

denuda un lembo di blu

lassu' in alto


di Simone Sutra

Raduno Verdazzurre: un’escursione a “scatola chiusa”



Leggere questo titolo dell’annuncio sul giornale ha destato in me qualche perplessità (non sapendo nulla delle famose “settimane” *). Dopo una certa esitazione ho scartato l’ipotesi che si trattasse di una combriccola di ragazze extraterrestri goliardicamente riunite sulla terra a celebrare le loro imprese su mondi lontani, a conquistare che so, strani ciclopici giganti o ad amoreggiare con piante carnivore. Restava il rebus di questo accostamento di colori al femminile. Ragazze membri di un club vegetariano insieme a quelle di un istituto oceanografico?
Al mio arrivo, intanto, mi accorgo con sollievo che le partecipanti femminili non sono né verdi né azzurre, né tantomeno verdazzurre (magari a strisce) ma hanno un colorito assai più piacevole e soprattutto molto meno inquietante, cosa che sembra escludere del tutto l’ipotesi “aliene”.
Poi vengo anche informato sul vero significato occulto di quel “verdazzurre”. Si tratta di un codice segreto in base al quale vengono compiute strane camminate rituali (forzosamente faticose) al chiaro di luna; se poi la luna non c’è, pazienza, tanto le braccia forti per estrarre le persone dai fossi non mancano. Per quelle che cadono nei precipizi niente paura: basta comporre il 118 sul cellulare. Ho anche appurato che il termine “settimane” che accompagna il “verdazzurre” indica il periodo di tempo in cui, mediamente, si rimane a vagare nella foresta dopo essersi smarriti per l’appunto durante la camminata notturna. Infatti il soccorso alpino non ne può più di questa associazione e degli straordinari che gli tocca fare per recuperarne i membri dispersi. Tipo: “Come è andata la tua settimana verdazzurra?” “E’ stato fantastico! Ho smarrito la suocera al primo giorno e non si è più trovata!”
Ospiti di un bellissimo castello-ostello , strano connubio di antico e moderno, in cui non manca il fatidico fantasma, ma in cui le porte nemmeno cigolano sinistramente quando le apri – che delusione - ci ritroviamo la sera dopo una pioggia battente.
E iniziano a fioccare le battute che provocano istinti assassini:
“Che pioggia! Ho la valigia piena d’acqua!”
“Sfusa o in bottiglie?”
Andiamo avanti, stendendo un velo di pietoso silenzio sullo scambio che segue questo esordio poco diplomatico.
Sorvoleremo anche sul detto preferito del padre dell’organizzatore, citato illustrando certe foto di avvenenti fanciulle appiccicate sulla porta della capanna di un eremita incontrato in gite precedenti, secondo il quale un certo particolare anatomico femminile avrebbe più forza di trazione di un carro di buoi. Potenze della genetica moderna! Ma che avrebbe detto Einstein?
La cena pantagruelica che viene servita da camerieri innervositi per il ritardo dei partecipanti è carica delle loro vibrazioni; io, perlomeno, le ho sentite sullo stomaco tutta la notte. E non venitemi a raccontare che sono state le due bottiglie di lambrusco che mi sono bevute. No, e neanche i quindici pezzi d’erbazzone che ho ingurgitato. No, e neanche i sette spicchi di parmigiano …Vi dico che è tutta colpa dei camerieri, e non fate quella faccia!! Certo, non dico che abbiano rivendicato il famoso detto di Lucrezia Borgia mentre serviva gli spaghetti ai suoi ospiti (“i vostri primi saranno gli ultimi”, sussurrava loro con un tenero sorriso), però la loro parte per rendere indigesti i cibi l’hanno certamente fatta. Che abbiano mentalmente inscenato un simbolico “V” day in memoria di Grillo?
Comunque,bisogna camminare…e cammineremo. Non sulle acque, come successe quella volta che l’evangelista che citò il fenomeno fu poi arrestato per detenzione di stupefacenti, ma comunque è un cammino che ci porta verso la “santità” di un angolo di Tibet.*2
Ignorando la leggerezza spirituale dell’atmosfera, l’invito implicito a distaccarsi dai piaceri del corpo, e l’aspirazione a nutrirsi di alimenti più consoni all’elevazione interiore, i nostri ne fanno sfacciatamente teatro delle loro abbuffate di panini presumibilmente contenenti carni stagionate, per poi esibirsi nel più colossale spaparanzamento generale che le panchine locali abbiano mai sopportato. L’indecoroso spettacolo è stato comunque doverosamente immortalato fotograficamente, e chissà che qualche coscienza, di fronte all’evidenza della sua piccolezza e materialità, non senta il rimordimento che dovrebbe. Insomma, si sa che la carne è debole, ma anche il formaggio,poi!
Nella risalita verso il posteggio delle macchine un membro della comitiva ci rallegra con canti pseudo-gregoriani. Per poco non viene canonizzato, cioè preso a cannonate. Un altro membro scopre di avere – penso come reazione spontanea dell’organismo alla voce dell’improvvisato menestrello – un improvviso e impellente bisogno corporale.
E siamo giunti al momento clou del raduno: il grande banchetto finale, che ricorda il platonico simposio. L’urgenza e l’obbligo del brindisi, come al tempo del filosofo, vengono puntualmente rispettati: e in effetti la susseguente passeggiata al chiaro di luna ne testimonia gli effetti, perchè i chilometri fino al castello, che per l’organizzazione dovrebbero essere due, diventano quattro. Ma dopo tutte quelle bevute, che c’era da aspettarsi? Vedere doppio è fuori moda, fare doppia strada è il nuovo verbo dei seguaci di questo novello Dioniso.
Ma d’altra parte il grande poeta Callimaco, citato ripetutamente dalla nostra ineffabile guida, diceva “Non camminerò mai sulle orme di altri”. Quindi, se dopo una camminata iniziata in Brianza vi ritrovate nei dintorni di Addis Abeba, non stupitevi più di tanto. E non dite che non vi avevo avvisato.
Simone

*Le “settimane verdazzurre” sono vacanze organizzate dall’associazione di trekking “In viaggio con Ric” che ha poi promosso il raduno dei partecipanti a quelle.
*2. Il borgo di Verogno (Canossa), ristrutturato e reso centro di devozione buddista da monaci tibetani

di Simone Sutra

lunedì 18 maggio 2009

Dopo lo spettacolo “Il cammino della Stella” (gli Arcani Maggiori dei Tarocchi all’opera)– Bologna 17 Maggio 2009

Da oggi il sacro non ha più bisogno di ierofanti, di simulacri, di paludate estensioni del vero, poiché il propagarsi del suo eterno fervore accende il subbuglio interiore nel convibrare di granelli di autocoscienza, risvegliati dall’arcano richiamo del sempre, inscenato quest’oggi per noi dall’etereogenea ed appassionata banda di Barbara Elia.
Ed ecco sparire e riapparire, nello sconfinato gioco di luci e di ombre della vita, i nostri personaggi interiori, che emergono da porte aperte e poi richiuse, quasi a ribadire che ci sono tempi e modi, scadenze e scansioni nel ritmo fluido dell’esistenza, nel percorso che compiamo obbedendo a voci spesso non pienamente comprese ma che ci impongono, di volta in volta pietose o inflessibili, pause sbigottite o temerarie accelerazioni . Siamo noi che seguiamo loro o loro che seguono noi? Difficile a dirsi, poiché il tema itinerante sposta in continuazione il soggetto a complemento oggetto, e noi veniamo agiti tanto quanto agiamo – o meglio interagiamo le dinamiche che ci avvincono al nostro stesso travestimento.
E nella fantasmagorica rifrazione di un’unica Luce che si scinde in 22 splendidi colori si anima il panorama interiore generosamente irrorato da questi misteriosi emissari dell’Amore, ognuno carico di una sua missione, saturo di una sua magica energia, latore di un suo personalissimo messaggio: musicanti attoniti e scaltri vagabondi, enigmatiche sacerdotesse ed algide regine, straniti giocolieri e deliranti tentatrici, eteree sirene ed austeri legislatori…Ognuno e tutti alleati nell’inscenare instancabilmente il rapporto fra io e non-io, e il raffronto disperato/esasperato ma finalmente liberante fra le parti più grevi e quelle più nobili di noi stessi, qualificandosi di volta in volta come ritrosi oppure arditi ambasciatori di realtà che ci appartengono da sempre.
Ecco che veniamo condotti di fronte all’immenso specchio per confrontarci disagevolmente con le verità, le mezze verità e le bugie che ci diciamo, e per capire che il vero termine di paragone con noi stessi non è quel che appare o che vogliamo far apparire. C’è piuttosto da recuperare tutto l’iceberg sommerso dell’essenza più profonda di noi, che esibisce il pinnacolo superficiale come garrula bandiera e comoda vetrina di sé.
Ed ecco che così, finalmente, si ricompongono gli smarriti frammenti del sé, centrifugati nel vorticare di innumerevoli nebulose dalle antiche vite.
E si conclude un rito d’Amore che risuona di millenarie melodie, che sfolgora di luci baluginanti in un cielo lontano, di fuochi avvampanti nell’anima, e ci ritroviamo ad acclamare una fine che in verità è l’inizio del lungo cammino di ricongiungimento con la parte più vera di noi.

Simone Sutra

venerdì 15 maggio 2009

Vicissitudini di un trekkista in erba






Di Simone Sottosopra (dopo l’esperienza)

Tutto ebbe inizio il bel (????) giorno che il sottoscritto, ormai inveterato escursionista (credeva lui) , si volle associare a una sinistra accolita di trekkers. Accettando un programma di tre giorni, mi arriva la scaletta degli eventi. E leggo, testualmente: Giorno 1: Orrido di Botri. Portare scarpe da ginnastica e costume da bagno per la risalita dell’orrido.
Tu cosa avresti pensato ricevendo questa comunicazione ? Esattamente ciò che ho pensato io, : e cioè, che, scartando per ovvi motivi l’ipotesi che quell’orrido di cui si parla sia un uomo orrendo e bruttissimo, si tratti invece di un luogo orrendo, precipuamente a motivo – ritenevo -della sua conformazione orografica. In altre parole, mi aspettavo un’aspra montagna da “risalire”. Ma che organizzatori gentili, premurosi: hanno persino pensato che farà tanto caldo che bisogna portare il costume da bagno per stare meglio, da spogliati. Le scarpe da ginnastica non me le spiego altrettanto chiaramente: non andavano bene gli scarponcini da montagna? Comunque, faccio spallucce.
Ipotesi , o meglio aspettative, le mie, che si sono duramente scontrate con la realtà dei fatti. Un “orrido” , nel linguaggio evidentemente cifrato degli appassionati di montagna, è uno stretto canyon, insomma una gola sul fondo della quale scorre un fiumiciattolo. Mi informano comunque che questa voce è presente anche nell’enciclopedia Trekkani.
Sgomento e terrore quando scopro che dovrò arrancare in queste gelide acque che in piena estate, quando sono un po’ più calde, raggiungono la temperatura di 17 gradi sotto zero all’incirca.
Ma devo sobbarcarmi, stoicamente per quanto me lo consente la mia dignità, anche questa. Per quanto riguarda la dignità, il ridicolo elmetto che siamo costretti ad indossare ne cancella poi anche le ultime tracce.
Sopravvivo. Il posto è bellissimo, ma i miei piedi sono un po’ irritati con il loro proprietario, e le loro rimostranze si fanno sentire esponendo rosse chiazze qua e là. L’effetto estetico, bisogna riconoscerlo, è veramente “orrido”.
Insomma, poi trasferimento in macchina fino al rifugio dove si dormirà per la notte. “a poca distanza” dice la guida. Dopo due ore che giriamo ci accorgiamo, avvertiti da un sesto senso (credo che dire “da un angelo” sarebbe poco credibile), che la guida (!!!) ha sbagliato strada e ci sta conducendo in tutt’altra direzione. Dopo un convulso dietro-front arriviamo, tra balze e contrafforti, monti e vallate, colline e pianure, laghi e città, al rifugio, situato a Km 1,756 circa oltre i confini della civiltà conosciuta (dire “a casa del diavolo” sarebbe riduttivo – so anche che qualcuno ha tirato in ballo il posteriore dei lupi, con altrettanta approssimazione). Cena con la testa ciondolante sul piatto. Camerata per sette persone, con tutti gli umori, gli odori e i rumori che si possono immaginare. Meno male che tra i due opposti schieramenti (composti da vittime e perpetratori dell’arte di russare), io sto dalla parte vincente; il mattino dopo quattro persone (le vittime) esibiscono facce spettrali e profonde occhiaie in perfetto stile Conte Dracula , e biascicano parole confuse, nel delirio della sonnolenza, a proposito di “concerti notturni” e “crescendo rossiniani”! Io faccio finta di niente, insieme agli altri due russatori, tutti quanti con le facce riposate e l’occhio arzillo, proprio come me. Mi limito a rivolgere loro un sorriso ebete che vorrebbe essere di simpatia.
“Fate presto” ci aveva ammonito il gestore del rifugio, “perchè le previsioni danno maltempo per il primo pomeriggio”. “Sciocchezze” assicura la nostra guida, licenziando con sufficienza la pessimistica previsione dell’improvvisato metereologo. Però, siccome non si sa mai, per battere sul tempo l’eventuale pioggia e potere fare la nostra bella camminata di sei ore, ci precipitiamo – praticamente – sulla strada con un’ora e passa di anticipo sul programma, e cioè prima delle 8.00.
Precipitano gli eventi, come pure altre cose. Ore 9.00, quota 1600 s.l.m.: il clima, venuto a conoscenza del nostro piano di batterlo sul tempo, ha subdolamente deciso di batterci sul tempo, fregandoci con un piovasco di diluviana memoria. I miei compagni, però, montanari di lungo corso, sono attrezzati di tutto punto: giacche a vento costosissime, mantelline impermeabili, indumenti di Gore-tex (che ancora non ho ben capito cos’è, ma tutti loro ne parlano), sottomaglie termiche da sci, bastoncini telescopici (anche qui non sono riuscito a capire cosa c’entra l’astronomia) occhialoni in pieno stile K-2; insomma, la pioggia per loro è quasi una bazzecola. Io, invece, zingarello dei monti, con una giacchetta stile Happy days, il mio bastoncino di legno da turista di Canazei, e lo zaino tirolese alla Hansel e Gretel, mi trovo un po’ più a malpartito. Diciamo che sono fradicio fino alle ossa (le ossa si possono bagnare? Dirai tu. Ne sono certo, dopo questa esperienza, pur non potendolo provare scientificamente.) Mi si strappano pure i pantaloni, ed offro lo spettacolo penoso di uno squallido aspirante imitatore di Full Monty. Durante una breve sosta in un luogo al riparo dalla pioggia una compagna di escursione – non so se perchè impietosita oppure per assecondare le mie ormai evidenti tendenze esibizionistiche - mi offre la sua canottiera femminile (asciutta). Rifiuto sdegnosamente: non sono ancora caduto così in basso da emulare i viados brasiliani! Sulla strada del ritorno, nell’incrociare alcune macchine, sono costretto a mettermi praticamente su una gamba sola –quella con il pantalone ancora integro - come i trampolieri per celare le mie vergogne.
Al ritorno al rifugio, ad una prima ispezione degli scarponcini, noto con una certa apprensione che vi sguazzano allegramente dentro pesciolini rossi e alghe di guam. Mancano però le piantine di riso. Pazienza! Anche oggi niente sushi.
Per ispirazione divina però avevo messo in macchina le mie scarpette di tela bianche, un po’ patetiche ma tanto comode – e soprattutto asciutte. Mi hanno salvato la vita. La mia ritirata verso l’agognata terra emiliana, la mattina dopo, aveva il sapore dolceamaro dell’ostinato e orgoglioso esilio garibaldino a Caprera. Nelle mie ultime volontà lascerò una postilla per riscattare la figura di Fantozzi, essendomi calato nel personaggio con le mie traumatiche esperienze.
Prosit!














De refugio peccatorum

Come postilla alle “vicissitudini” ho pensato di redigere un aggiornamento su di una condizione esistenziale praticamente inerente i trekkaroli più ostinati, una sorta di estensione dei loro stessi corpi: i rifugi montani.
Tanto per cominciare, pur nella mia limitata – ma sofferta – esperienza, credo di aver capito il perchè di questa nomina. Credo proprio infatti che risalga e sia in riferimento allo stato di rifugiati , quella classe di persone sempre spostate dalla propria realtà, confinati ad una condizione di deprivazione e stress.
Sì, perchè io credo che ogni rifugio che si rispetti dovrebbe recare sulla facciata, al di sopra della porta d’entrata, una scritta emblematica di ciò che vi si troverà, in maniera da non dar luogo a nessuna pietosa ed equivoca illusione da parte degli intrepidi escursionisti che ne varcano la soglia, con gli occhi lustri di emozione al pensiero del conforto che vi troveranno dopo una dura giornata di lotta con gli elementi e con le proprie imbranataggini.
La scritta dovrebbe leggersi - tralasciando il forse un tantino esagerato e dantesco “lasciate ogni speranza o voi che entrate”- in questi termini: “diteci che cosa vi serve e vi insegneremo come farne a meno”.
Da qui la descrizione, su molti depliant, del rifugio come situato in luogo “ameno”. I correttori delle bozze hanno sempre, biecamente e con malvagia intenzionalità, sorvolato sul refuso accorpando le due parole in una sola.
Ho letto una volta, in un rifugio, un depliant di “istruzioni per l’uso” che mi sembrava preso pari pari dal programma di Auschwitz. E’ vero, c’era forse qualche deroga al programma originale, ma il trattamento in fondo prevedeva qualcosa di poco dissimile.
N° 1: ma i bidet, i gestori dei rifugi, non lo sanno che sono stati inventati circa un secolo fa? Sarà anche vero che in quel contesto di tutto si avrà voglia tranne che di quella certa cosa ..... ma insomma, i bidet servono anche ad altro.
Poi c’è la questione del sovraffollamento stanziale (cioè nelle stanze). E poi dicono: “oh, il mondo non ce la fa più a sostenere tutta questa popolazione in crescita” . E perchè un onesto trekker ce la dovrebbe fare? Ti stipano gli escursionisti in modo da fare invidia a una fabbrica di sardine in scatola, ammucchiandoli impietosamente uno sull’altro...Dice: “però nei rifugi non ci sono nè mosche nè zanzare”. Ovvio! Dove lo trovano lo spazio fisico per volare? Senza contare che la gassificazione naturale è talmente elevata che i poveri insetti corrono il rischio dell’estinzione.
E se poi fosse legale avere letti a castello a tre piani, ci sarebbe sempre il malcapitato di turno (in genere l’ultimo a portare le sue cose nella camerata – altro termine di provenienza sospetta, fra l’altro) che dormirebbe con il naso rasente il soffitto, incidendo con esso graffiti più o meno apprezzabili dalle generazioni future.
Il problema dei letti a castelli è in effetti grave e doloroso, e permane come una cicatrice aperta sull’animo dell’escursionista. Se sei quello che dorme di sopra, il pericolo è evidente: visto che il trekker medio è abbondantemente sopra gli “anta”, ha generalmente qualche limite atletico, per usare un eufemismo. La copertura assicurativa, anche se non lo sapevate, si riferisce a questa fase particolare dell’escursione: scendere e salire dal piano di sopra del bunk bed. Arrivare a quota 2000 è una bazzecola in confronto, visto che spesso le scalette non esistono.
Se poi ti capita di dormire di sotto, anche peggio: il rollìo e il beccheggio ricordano una via di mezzo tra la traversata Civitavecchia- Golfo Aranci e una nave negriera, con tutti gli scricchiolii e i “gnic gnic” della stiva di un antico veliero. Il peso del compagno di sopra è determinante (oltre che nello stabilire la misura di angoscia di chi dorme sotto) nello spostamento baricentrico del letto. Potrei anzi azzardare una formula matematica di rapporti fra pesi e misure, ma sento che non è il caso.
Insomma, usare il termine “spartano” in riferimento ai rifugi è generalmente un understatement, e sono certo che se i temerari guerrieri del Peloponneso ne fossero informati si sentirebbero all’avanguardia del modernismo e del comfort.
Poi: la dislocazione dei rifugi. Non ti basta aver scarpinato per ore ed ore, sotto la neve, sotto la tormenta, sotto il sole cocente. No! Ti tocca pure guidare per le stradine più dimenticate da Dio, sfiorando ad ogni curva il bordo del dirupo, per poi vedere che c’è sempre una curva in più, un chilometro in più, una sfida in più alla tua immaginazione di dove può davvero arrivare la civiltà – se così si può definire.Infatti, quando arrivi quasi non ci credi. Baciare la terra appena si scende dalla macchina è una reazione assai diffusa fra gli escursionisti, soprattutto quelli che hanno visto i telegiornali che si riferivano ai viaggi di Giovanni Paolo II. Ne condividono lo stesso sollievo per avercela fatta.








Lider maximo

Per concludere la mia “trilogia della montagna” (vedi: 1- Vicissitudini…e 2 – De refugio peccatorum) ho pensato di esprimere qualche pensierino su di un elemento indispensabile nelle camminate: la guida.
La guida è un personaggio curioso, inimitabile, e se non ci fosse bisognerebbe inventarlo.
Adesso come adesso, comunque, sembra più il risultato di un’esplosione da set di “piccolo chimico”.
Ma che volete, egli è un amico, un fratello, un compagnone, un padre, una spalla su cui piangere anche, perfino un confessore a volte, quando vi guarderà con cipiglio austero come a chiedervi se avete peccato in pensieri parole ed opere mentre arrancavate nel tentativo di stargli al passo sull’impegnativo tracciato con dislivello metri 3 e mezzo e poi con la sua consueta magnanimità vi assolverà per non aver commesso il fatto dopo avervi ascoltato, con aria condiscendente, farfugliare patetiche scuse improponibili riguardo al pensiero di qualche vecchia zia malata a casa che vi ha impedito di fare del vostro meglio. Abbozzerà un sorriso da duro uomo di mondo e il vostro segreto sarà per sempre in salvo con lui.
E’ anche vero che a volte sa trasformarsi in un feroce negriero, e ci si chiede se non tirerà fuori una frusta sul più bello, mentre voi rimpiangete il giorno in cui avete deciso di darvi al trekking. Solo la guida sa leggere, su carte topografiche aggiornatissime, le indicazioni più adeguate per sbagliare strada e arrivare direttamente in Congo mentre eravate sull’altipiano di Asiago.
Una guida ha un po’ del Furher e del Papa, un po’ del santo e del navigatore, ma non del poeta: i cedevoli sentimentalismi non fanno per lui, perché ha la responsabilità di voi, debolucci e patetici trekkaroli della domenica. Egli è un po’ sergente nella neve e ufficiale e gentiluomo, una figura d’altri tempi ma dotata di cellulare satellitare con navigatore – non si sa mai.
Ma chi altri come lui sa condurvi in un ambiente fiabesco da cui vi aspettate di veder sbucare fuori da un momento all’altro Biancaneve e i sette nani? A volte però vi chiedete se quella nonnina indifesa che incontrate non sia in realtà il lupo cattivo travestito, quando sentite quel che le esce di bocca se le pestate le petunie mentre passate davanti alla sua casetta piccolina in Canadà.
Se la guida è un bellimbusto – e purtroppo può succedere- potrebbe popolare i sogni romantici delle signore/ine al seguito dell’escursione; potrebbe popolare anche quelli dei maschietti ma qui in veste di capro espiatorio, da sottoporre al lancio di oggetti di varia tipologia (preferibilmente pesanti) per le sette camicie che vi ha fatto sudare durante il giorno.
E veniamo ai consigli pratici utili a salvaguardare la salute (mentale e non) dei trekkaroli non avvezzi a trattare con questo pernicioso esemplare del genere umano.
Una piccola avvertenza sarebbe quella di evitare, la volta successiva, la guida che all’arrivo dopo un’escursione prostrandosi bacia il terreno inondandolo di lacrime, grata di aver raggiunto la meta. Guardatevi anche da quelli che prima di un’escursione vi chiedono di fermarvi nella chiesetta per accendere un cero alla Madonna: purtroppo non è una dimostrazione di fervore religioso. Inutile dire che quelli che propongono, il 31 Gennaio durante una camminata sulle ciaspole, una “piccola deviazione” per vedere un “meraviglioso” lago di montagna, hanno già concepito nella loro mente machiavellica un diabolico piano per farvi immergere, una volta là, come mamma vi ha fatto nel pittoresco (ma caratterizzato da temperature abbondantemente sotto lo zero) specchio d’acqua.
Ma dopotutto, che sarebbe il mondo senza le guide alpine? Forse un mondo meno pericoloso, ma certamente meno avvincente!
Quindi, benediteli, siatene grati e soprattutto….teneteveli buoni, che vi conviene.

di Simone Sutra

martedì 12 maggio 2009

A MANZIANA, 9 MAGGIO 2009




Affidiamo al vento cibernetico queste parole, che non contengono una fine né racchiudono una definizione, ma sottendono la promessa di nuovi orizzonti possibili da aprire all’anima….

Abbiamo iniziato avanzando a lenti passi, accolti benevolmente dal verde respirante millenari silenzi, risonante di mistici stupori, palpitante di inattese sensazioni. Dapprima un po’ impacciati, quasi procedendo in equilibrio precario sul filo teso dei rigurgiti del caotico mondo che ci siamo lasciati-per un po’ – alle spalle. Poi più decisi (ma non per questo meno lenti) sulla scia della percezione dell’essenza forte, serena e maestosa di queste querce secolari. Il flauto di Upahara musicava dolcemente le scansioni di melodie senza tempo, in cui si sperdeva l’interiorità animata da un soffio di emozione. Attimi di sospensione del dibattersi frenetico del pensiero, sottolineati dalla lettura, da parte di Paolo d’Arpini, di un prezioso tributo a questa foresta, ripercorrendo i passi che un anno fa proprio in questo luogo avevano sospinto la poetessa–contadina Etain Addey a ritrovare frammenti di sè esprimendo poi in queste parole la gioia di un ritorno:
“Non avrei mai immaginato che un bosco potesse commuovermi com’è successo in quello di Manziana…era come se l’inconscio riconoscesse immediatamente la sua matrice,e per la prima volta ho sentito che tutti noi siamo orfani di questo specifico habitat e come dolorosamente esso ci manchi nella vita quotidiana, e come ci sentiamo subito raccolti nel momento in cui lo ritroviamo. Ho dimenticato il numero di ettari ricoperti dalla foresta di Manziana, forse l’ho dimenticato apposta poiché fa male sapere i suoi reali limiti: nella mia mente essa è senza dimensione.”
E ancora:
“Si entra nel bosco ed improvvisamente si perdono tutti gli strati superficiali della propria personalità, ogni velo dietro al quale noi moderni ci nascondiamo. La sensazione fortissima è quella di trovarsi a casa, nell’habitat originario, nell’ambiente che appare solo nei nostri sogni…”
“Che si usi la definizione di cattedrale riferita ad un bosco è una metafora tristemente impropria, casomai è vero il contrario! Questa considerazione inoltre ci suggerisce qualcosa circa il significato di “spiritualità”, ossia quella dimensione che ci fa vivere fisicamente il mondo selvatico, rinverdendo così la nostra interiorità”.

Qualcuno, in base a queste sue riflessioni, l’ha definita “sciamana” e quel suo accenno di psico-magia è davvero appropriato per definire chi legge così chiaramente le presenze naturali e ne evoca le loro controparti soprannaturali, interpretando per tutti noi l’inesprimibile concetto che aleggia negli occhi ancor prima di venire consolidato nella mente.
Ma ognuno, in fin dei conti, è un po’sciamano, e ha un suo fantasmagorico modo di percepire i brividi con cui le onde del tempo aprono immense voragini sulla coscienza, imprimendovi le tracce di storie dimenticate, riti misteriosi, estasi devozionali, lacerazioni dell’animo, amori impossibili e quant’altro resta sospeso appena al di là della pellicola superficiale della materialità come magma ribollente pronto a riversarsi fuori dalle dimensioni non manifeste non appena apriamo un varco di introspezione, non appena esploriamo un po’ più a fondo le alterazioni nel tessuto della nostra esistenza e di questo strano mondo in cui siamo stati catapultati un giorno. Per questo la trasfigurazione interiore è sempre in agguato dietro ogni angolo nascosto della vita, e potremmo trovarci a cadere, con un grato sussulto, tra le sue braccia nel momento più inaspettato.
Sì, forse la visita a Manziana ci ha reso tutti un po’ più consapevoli che, maghi o giocolieri, apprendisti stregoni o psico-discepoli, buffoni di corte o giullari di Dio, ci affratella lo stesso Spirito che stende attorno il suo sguardo, magnanimo e rassicurante, dall’alto delle torreggianti querce del bosco.

Simone Sutra

Come vedete, ha partecipato all’evento anche una delegazione di aborigeni, inviati appositamente dal governo australiano per eseguire riti di fecondazione assistita. Nahh! Si tratta solo di Upahara, Vina e Adriano che hanno avuto la bella idea di sperimentare una maschera di bellezza low-cost utilizzando i fanghi sulfurei della caldara pozzolanica di Manziana, con risultati, per la verità, un po’ inquietanti. Rinviato a data da destinarsi il lancio commerciale del prodotto sul mercato.

di Simone Sutra